Corso Cavour, verso sera, la solita strada che dalla stazione conduce alla fine della giornata. Il pendolare fa i conti con la quotidianità che si muove ma non cambia, che scorre ma puzza d’immobilismo. Il treno stimola il sonno e raramente il pensiero. Sospensione putrida di panorami che piombano nell’immaginazione attraverso il finestrino. Il ritorno è già casa anche se trenta minuti separano lo stomaco dalla cena, il culo dal divano. Frugali baci a chi aspetta, odore di relazione che funziona grazie alla mancata lucidità che il viaggio andata e ritorno corrode. Lento.
Angoli di palazzi familiari, a volte la stessa gente. Orecchie distratte assorbono stralci di conversazioni “non gliel’ho più detto, anche perché lui è stato…”. Una chiazza rossa spunta da un edificio, sono rose, un mazzo di rose rosse di quelle che si vendono per strada e nonostante la petulanza dei venditori sia spesso ripagata con il rifiuto della merce, quei fiori, la prepotenza di quel colore, l’affascinante banalità dell’associazione all’amore aprono uno spiraglio, una crepa sulla superficie dalla quale scorgere la vita che pulsa. Dietro a quel mazzo abbracciato nella destra, quasi a cercare un po’ d’intimità, lui che con la sinistra dà sfogo alla minzione. Il tutto scorto nello spazio di dieci passi, nel tempo che c’è voluto per mettere a fuoco l’intera faccenda e una volta intesa, lasciarsela con sollievo alle spalle. Rose come parapetto che riportano in un attimo la poesia immaginata all’espletamento di funzioni corporee esibite, proprio perché malcelate. Come ti sei permesso di inquinare il pensiero positivo della sera pisciando contro un muro?