Che shitteria!

In un periodo storico in cui la rivalutazione dello scarto è una necessità, come dimenticarci del primo vero scarto che ci accompagna dai primordi: la cacca. Essere ben informati sui fatti che la riguardano può riappacificarci col mondo. Non siete d’accordo?

Lo scorso anno, da un’idea avuta in seguito a uno dei tanti calembour che mi affollano la mente, è nato Shitteria, il primo podcast scritto per Roger che parla di cacca e dintorni, in modo chic, ça va sans dir. Dopo l’ultimo Sanremo ho pensato che avrei dovuto aggiornare una delle mie puntate preferite, quella dove si parla di canzoni. Non canzoni di merda, troppo semplice la battuta, ma canzoni che parlano di. Sì, anche le canzoni ne parlano e non sempre in modo metaforico.

Ve le ricordate quelle della gita? Non solo quelle che partono dai primi posti del pullman ad opera del prete dell’oratorio o della zia di un nostro amico, che rompono il silenzio con un penetrante quanto confortante “quel mazzolin di fiori”. E da lì, un domino di voci che arriva fino in fondo agli ultimi sedili occupati dai più restii a farsi coinvolgere, che esplode in un gioioso “che vien dalla montagna”.

Ma quelle che arrivano dagli ultimi e non solo nel  significato spaziale del termine.

Ce n’è uno di solito, il nostro braveheart, che parte in sordina, quasi sussurrandola la prima strofa, per vedere se attacca, se qualcun altro è altrettanto temerario da proseguire. “E questo è l’i-in-no del corpo sciolto“.

Il più delle volte rimane da solo anche in “che può cantare solo chi caca di molto”. Ma eccola la parola che fa detonare gli animi tutti, persino dei meno impavidi: “caca di molto”. Qui il nostro tedoforo prende forza, va avanti con la sua maratona, tenendo accesa la fiamma dell’impudicizia nella speranza, o meglio nella certezza, che a breve si saranno sciolti tutti, come l’inno. “Se vi stupisce la reazione strana” e già molte voci si sono accodate, “è che cagare è soprattutto cosa umana”, e qui ormai tutta la corriera è felicemente coinvolta. Anche l’autista tiene il ritmo, fra sguardi complici con le educatrici e un’alzata di spalle per scusarsi con il “don”, che ride misericordioso dell’umana grettitudine. E la sanno tutti. I primi e gli ultimi. Senza distinzione, come nei vangeli.

È il 1979 quando Roberto Benigni la canta la prima volta.

Rimaniamo nei mitici anni Settanta. Nel 1974 il grandissimo Giorgio Gaber esce con un album dal titolo “Anche per oggi non si vola” che contiene una canzone: l’odore. Ci sono Giorgio e una ragazza. Sono sdraiati sul prato poco prima di fare l’amore, ma una strana puzza lo distrae. Lui cerca di non farci caso, ma l’odore è davvero insopportabile a tal punto che la molla lì, la ragazza, e se ne torna in città. L’odore lo insegue. Va a casa, si toglie i vestiti, l’odore non diminuisce. Finchè non lo assale un dubbio: “vuoi vedere che sono io?”. No, non può essere. Eppure la puzza insiste, lo sovrasta. Così come la disperazione. Come farà con tutta la gente che lo ama e lo stima? Perderà amici e carriera e non è giusto visto che è venuto su dal niente, che si è fatto tutto da solo. E ripete all’infinito: mi son fatto tutto da me, mi son fatto tutto da me! mi son fatto tutto da me…mi sono fatto tutto di merda!

Sempre di quegli anni. Siamo a Roma nella scena progressive. Mauro Pelosi è un genio incompreso, secondo i più. Un poeta rivoluzionario, dissacrante, nichilista che decide di tenersi lontano dal folkstudio, locale simbolo del periodo. Preferisce una carriera defilata e silenziosa. Sono gli anni della PFM, delle Orme, del Banco di Mutuo Soccorso. E nel 1977 il nostro Mauro pubblica un album dal titolo “Mauro Pelosi”, dove avviene la svolta più paradossale. Qui è contenuta la canzone “ho fatto la cacca“. Ebbene sì. E lui la fa dappertutto. Sul suo pianoforte, sui dischi, sui libri, sul teatro, sulla creatività. Un animo nero e tormentato che qui esce davvero denso, in una ballata che sfrutta coraggiosamente la tematica scatologica per attaccare il capitalismo.

So che state pensando che era il 1967 quando De Andrè in Via del Campo diceva la verità assoluta sul tema del mio podcast “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior.” Ed è il 1989 quando Elio e le Storie tese pubblicano il loro primo singolo: Nubi di ieri sul nostro domani odierno. E, dopo “ditemi perché se la mucca fa mu, il merlo non fa me”, l’altra domanda che attanaglia il nostro gruppo è  “ditemi perché c’è un dirigibile marrone senza elica e timone dentro me”. Amletica.

Veniamo agli anni ’90. Dj Gruff nel 1998 scrive “Sucker per sempre” e dice così:

“Friggi le polpette nella merda, buon appetito,
Sfoggia chili di mostarda sul tuo pranzo ben riuscito, lieto,
Io sono molto lieto di non fare mai lo sbaglio di sedermi a questa tavola di stronzi.”

Non aggiungiamo altro, se non che Willie Pejote nel 2014 lo cita nella sua omonima “friggi le polpette nella merda“. Che dire di Giornata di merda di Daniele Silvestri o Siamo nella merda di Gianna Nannini e Fabri Fibra? La nostra protagonista viene citata solo come espressione, modo di dire, interiezione, niente di viscerale come negli esempi fatti prima. Ma ecco che arriva Caparezza con Le dimensioni del mio caos, album del 2009, contenente il singolo “Cacca nello spazio“. E infine Sanremo 2023 i grandissimi Colapesce e Dimartino che non si smentiscono e portano una canzone che stiamo cantando tutti da più di un mese, “ma che mare, ma che mare, come stronzi galleggiare, per non sentire il peso delle aspettative.”

Definitiva.

Sedute sempre nel posto sbagliato.

Ph. per Viaelisa Official e Viaelisa Lucca.

Scrivo questo articolo proprio l’indomani di una brutta figura (per usare un eufemismo), di quelle che si potevano fare, forse, cinquant’anni fa, ma anche allora ci avrebbe fatto inorridire, e che in realtà è stata fatta giusto ieri.

“Sei una donna, non puoi stare qui!”.

Questo il riassunto della triste vicenda che ha colpito Aurora Leone dei The Jackal che, alla cena della vigilia della Partita del cuore, cui era stata ufficialmente convocata, si è sentita dire dal direttore generale della Nazionale Cantanti Gianluca Pecchini che era nel “posto sbagliato” poiché appartenente al genere, verrebbe da dire, altrettanto “sbagliato” e che quindi, ha proseguito il condensato di genio e scaltrezza, non poteva stare seduta con gli uomini, perché le donne non giocano.

Ah, certo. Le donne non giocano, loro fanno l’uncinetto, fanno da mangiare, fanno i figli e fanno girare le palle. Questo è il nostro posto. Non a tavola con soli uomini per una cena di gala dove si fanno i soliti discorsi sul calcio mentre noi, invece, li facciamo solo sullo shopping. Però facciamo anche le pulci, lì siamo bravissime. Non era Rula Jebreal che ha preferito non andare a Propaganda live perché unica donna a un tavolo di solo uomini? Com’è ‘sta storia! Ma allora, il Pecchini della situazione potrebbe chiederci, dov’è che volete stare? Bella domanda, Gianluca. E scusa se ti chiamo per nome, voi non ci siete così abituati, a meno che non ci sia una grande confidenza.

Sai, è un annoso problema quello del “posto delle donne” e tu ci sei cascato dentro. Proviamo a fare l’inventario su dove sia questo benedetto posto delle donne: partirei con la casa e la cucina nella fattispecie, poi c’è la camera da letto per le più audaci, anzi no, solo per farci mettere incinta, scusa. Andiamo avanti, c’è la strada per le poco di buono, di certo non per intitolare vie o piazze, quelle sono solo vostre per la maggior parte. E arriviamo al lavoro per le emancipate – e sconsiderate aggiungo io (che poi trascuriamo la famiglia). Però il lavoro solo se ha a che fare con la comunicazione e con l’accoglienza, qualcosa di affine alla nostra natura mi raccomando, giammai scienziate o ricercatrici che non ci siamo proprio portate geneticamente a quelle materie lì. Quei due cromosomi uguali, eh, che vuoi, qualcosa devono pur voler dire. Siamo una cosa sola. Non possiamo spaziare come voi.

Vedi Gianluca, come te tanti altri hanno provato a rimetterci al “nostro posto”, come se fossimo delle figurine in un album, o il bagno in un locale pubblico, per poi stupirsi, ma neanche troppo, quando avremmo preferito la sedia al sofà, essere chiamate dottoresse e non signorine, o quando siamo andate a fare kitesurf invece di denunciare il nostro stupratore.

Eh, già, non ne facciamo una giusta! Siamo nel posto sbagliato, siamo vestite in modo sbagliato che poi gli si risveglia l’ormone ai Gianluca, siamo precisetti che vogliamo che si dica avvocata, architetta, ingegnera. Ma dai, fatemi ridere, quella professione esiste da prima che una donna avesse l’ardire di svolgerla, vero Gianlu? Ne facciamo sempre una questione di genere, come quando ci fischiano per strada e non è il vigile per farci la multa, o se ci licenziano perché è arrivata la pandemia, che mica è l’arrotino che vuole solo noi, no? Ma poi, che colpa ne avete voi se è arrivato un virus bastardo che ha tolto il respiro in maniera paritaria ma il lavoro soprattutto alle donne?

Ecco Gianlu, la colpa non è solo tua. Per carità! E neanche di tutti quelli che ti somigliano, e ce ne sono. La colpa è anche un po’ nostra, lo ammetto, perché quel posto che voi ci avete assegnato, a volte, ci va un po’ stretto e sgomitiamo per uscire e andare ad occupare quello che ci piace di più, così, random, dimenticandoci però di mandarvici voi in quel posto rimasto vacante, mandarvici a voce alta, scandendo ben bene le parole che non sia mai che veniamo fraintese e dopo che vi ci abbiamo mandato, vi viene in mente di invitarci a cena per chiederci scusa, che voi non volevate, che le donne le amate ne avete anche sposata una, che vostra madre, figuriamoci, se vi ha tirato su così, e ci fate un bel regalino, ci fate all’amore, che noi se non lo facciamo, è risaputo, siamo un po’ nervosette, e ci spiegate finalmente come stanno le cose, anche le nostre. Sì, perché bene come le spiegate voi, nessuno mai. Ecco. A quel tavolo, quello del “te lo spiego io” è meglio che non ci facciate sedere e se distrattamente lo facessimo, qui vale il “ti devi alzare”.

Ma quanti tavoli dovremo ancora sbagliare o disertare perché non se ne parli più del fatto che avremmo o non avremmo dovuto esserci? Quante partite dovremo dimostrare di saper giocare che si tratti di sport, di politica, di moralità o di professionalità per stare un po’ dove ci pare. Anche sul ca**o a volte, perché no. Ma siamo umane, Gianlu. Cosa vuoi farci!

Piacere, Vagina.

Tra Dio e Dea

Foto di Beatrice Speranza

(Testo scritto per l’opera “Tra Dio e Dea” di Beatrice Speranza in mostra al Mac di Pietrasanta fino al 10 settembre 2019.)

 

De sidero, allontanarsi dalle stelle. Questo è l’etimo della parola intorno cui gira tutta la mia vita. Da qualunque parte lo si guardi, sia che si tratti di desiderio di me, o che si tratti di me che desidero, hanno sempre cercato di farmi credere che non ci fosse nulla di spirituale. Eppure è solo laddove terra e cielo si uniscono che sento, da sempre, compiersi il mio miracolo.

Vivo all’ombra di un monte. Poco male. L’ombra è una risorsa se non diventa oscurantismo. So raggiungere vette altissime senza aver bisogno di essere sulla cima per sentirmi parte dell’universo. E quando raggiungo l’apice, dentro di me, sopra di me, sotto di me e tutto intorno a me, sento vibrare l’anima e il corpo, la natura e la cultura, la roccia e la nuvola.

Ho labbra grandi. Allora sei il lupo, direte voi. No, rispondo io. E anche se lo fossi non ci sarebbe nulla di cui temere. Non ho nessuna intenzione di mangiarvi. Ho anche labbra piccole però. Entrambe hanno molto da dire, soprattutto a quanti ancora cercano di metterle a tacere.

Ho eretto proprio sulla collinetta che mette in contatto il mio spirito con la mia carne, il tributo alla mia libertà: un albero fatto di radici ben piantate nei miei corpi cavernosi e rami e foglie che, al contrario, tendono all’infinito che mi sovrasta.

Dicono che il simbolo del cuore, così come lo disegniamo con le due curve in alto e la punta verso il basso, sia una rivisitazione grafica di me. Del mio esserci così come sono. Quindi, io sono l’amore?

Troppo complessa la risposta. Lo so, non vi affannate a darmela. Però amo essere amata e rivendico il diritto di vivere l’eterno che mi ha generata e che genero a mia volta, quando mi pervade il desiderio di rifugiarmi lassù, fra le stelle della mia carnalità.

 

Nido

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Disegno Beatrice Speranza

 

Nido è l’anagramma di Nodi.
Un intreccio di ramoscelli e sentimenti quale esempio di alta ingegneria strutturale e emotiva. Legami che frenano, ingabbiano, trattengono e spesso si sciolgono a fatica.

Nido è l’anagramma di Doni.
Una trama di materiale naturale sulla quale si innestano trame di relazioni umane. L’accudimento e la cura sono il grande “Grazie” che l’universo ha scritto nel cuore degli uomini.

 

(Testo scritto per l’opera “Nido” di Emy Petrini)