Arriva l’estate e in mezzo a chi parla di creme solari e vicini d’ombrellone, è bene ricordare anche quelle estati che hanno infuocato il nostro Belpaese a suon di attentati. Un viaggio nella storia di certi Luglio e certi Agosto che fanno venire la pelle d’oca nonostante le alte temperature.
Questa è una delle tante storie e parla di siciliani e sicilianità. Parla di verità e di giustizia che aprono, per fortuna in questo caso, la porta ad un nuovo futuro. Ma parla anche di profumi e sapori che aprono il cuore.
Se si parla di cucina in Sicilia si deve iniziare un viaggio dentro il viaggio, poiché ogni piatto ci porta verso diverse prospettive di tempo e ci suggerisce immagini di luoghi. Filippo La Mantia è siciliano doc ed è riuscito a trasformare il bagaglio della sua terra in un mestiere.
È il 1979 e Filippo, un giovane di soli diciannove anni, ha appena conosciuto la sua ragazza. Palermo in quegli anni è teatro della seconda guerra di Mafia, i Corleonesi hanno da poco preso il comando e il sangue scorre copioso nel capoluogo siciliano. La madre della sua fidanzata è Letizia Battaglia, una fotoreporter. Le sue foto raccontano la storia di quella città fatta di opposti, dei profumi della vucciria, dei colori delle sue strade, ma anche del dolore dei suoi morti ammazzati, sua la foto che ritrae all’Hotel Zagarella i fratelli Salvo con Andreotti.
Filippo frequenta lo studio Battaglia, a volte si infila nella camera oscura per vedere quegli stralci di vita immortalati dalla macchina fotografica di Letizia che emergono lentamente sulla carta. La tragicità delle immagini ha il sapore di una realtà che stenta a venire a galla, ma che una volta rivelata, non può non lasciare il suo segno indelebile. Comincia ad interessarsi alla fotografia e chiede a Letizia se può dare una mano. Dapprima si occupa dell’archivio, gli passano sotto mano fotogrammi di una cronaca cruenta, quasi inverosimile per un ragazzo pieno di vitalità come lui e che fino ad allora ha frequentato solo il Mondello e i circoli nautici. Ma il destino lo chiama.
Vedere la morte da vicino lo segna profondamente. Non è facile rimanere impassibili di fronte alla violenza di un omicidio, al dolore della famiglia del morto, alla tragicità della scena che si presenta agli occhi. La prima volta che Letizia lo invita a seguirla, armato di macchina fotografica, Filippo non la dimenticherà mai. Da qui impara che raccontare una tragedia onorando i protagonisti, non è facile. Ci vuole soprattutto rispetto, lo stesso rispetto che anni dopo metterà nella sua cucina. Si appassiona così al lavoro da fotoreporter che gli viene particolarmente bene. Letizia è fiera di averlo nella sua scuderia.
Mostra infatti alcune delle sue foto all’amico Josef Koudelka, il fotografo dei famosi scatti sulla fine della Primavera di Praga, e anche lui rimane colpito da quel giovane che registra la triste storia della sua città con tanta precisione e partecipazione al tempo stesso.
I delitti eccellenti passano tutti attraverso le sue inquadrature. Nell’omicidio Chinnici, lui è tra i primi ad arrivare sul luogo del delitto e la prima domanda che si fa è come sia possibile entrare così dentro al dolore. Decide di mostrare la sua partecipazione all’orrore della scena, scattando le sue foto da una certa distanza. Solo allontanandosi da quello scempio può trovare l’equilibrio tra testimonianza e sensibilità.
Il 1982 è l’anno dell’omicidio di Dalla Chiesa e Filippo non manca all’appuntamento. La sua vita si intreccia sempre più con quella della sua città. Sembra quasi che Palermo voglia attirare la sua attenzione su quello che il destino ha in serbo per lui, chiamandolo a fissare sulla pellicola un assaggio del suo futuro. Il suo carattere gli consente di rimanere comunque sintonizzato con la sua età. Ha solo 22 anni e l’amore per la vita, le belle ragazze e le serate con gli amici è sempre presente. Proprio sui racconti di questa parte della sua vita, così gioviale e spensierata, anni dopo verrà fatto un film, “Tutte le donne della mia vita”, dove il bel Filippo con tutta la sua sicilianità più positiva, è interpretato da uno strepitoso Luca Zingaretti.
Tornando alla Sicilia dei primi anni ’80, i genitori di Filippo hanno diverse attività in città, ma lui decide di non seguire la strada segnata dalla famiglia, lui vuole sperimentare. Il suo occhio si ciba degli scenari che Palermo offre e che non sono solo quelli delle stragi, ma anche quelli dei profumi e dei colori di un’isola incredibile, quelli che si porta dentro e che lo faranno essere l’uomo e il cuoco che è diventato. Le ragazze lo cercano, è facile rimediare dei sì per uno come lui, sportivo, simpatico e sempre con delle storie interessanti da raccontare, un carattere aperto ereditato dalla mamma.
È il 1984 e Filippo decide di affittare una casa in via Croce Rossa a Palermo, una sorta di dependance. La usa un po’ come ufficio, ma soprattutto è un ottimo rifugio per portarci le sue conquiste. A giugno dell’anno successivo decide di concedersi una vacanza. Parte in moto per tre mesi, direzione Ibiza, ma prima di partire disdice il contratto dell’appartamento in via Croce Rossa. Pareo e occhiali, sta camminando per le strade dell’isola spagnola quando intravede, davanti ad un’edicola, dei titoli su quotidiani italiani che lo riportano per un attimo alla realtà della sua terra. Si parla di una strage di mafia a Palermo, proprio in Via Croce Rossa. Strano, pensa, proprio dove aveva anche lui una specie di ufficio.
È solo l’inizio dell’incubo che sta per travolgere Filippo, che intanto non si preoccupa della notizia, ma si gode la sua vacanza alle Baleari. Il sole, il mare e l’amore. Questo vuole lui. A settembre torna dal suo viaggio e il suo destino è lì ad attenderlo. La madre gli comunica che mentre era via l’hanno cercato i carabinieri e lui pensa a qualche multa non pagata, a qualche infrazione al codice della strada, niente di più. Ha ancora nelle orecchie la musica delle discoteche ibizenche e negli occhi il viso dell’ultima ragazza con la quale ha passato parte della vacanza. È leggero. Gli ci voleva proprio un po’ d’aria nuova, lontano da Palermo e da quel caleidoscopico bagaglio umano che, se lo guardi troppo da vicino, rischia di schiacciarti. Alla radio passano uno dei suoi cantanti preferiti, Bryan Ferry, che proprio quell’anno esce con Slave to love. Fino a quel momento anche per Filippo l’amore è l’unica forma di schiavitù.
È la metà di giugno del 1986. Filippo è appena rientrato da una delle sue serate a Mondello. L’estate palermitana è cominciata. Si è appena addormentato e sente dare dei colpi forti alla porta. Forse è solo un sogno, pensa. Non ha voglia di alzarsi, è troppo stanco. Anche quella sera nell’intrattenere gli amici e nel far colpo su nuove fiamme ha dato il massimo. Il rumore però aumenta, adesso è certo che non si tratti di un sogno, ma ha più le sembianze di un incubo. Apre gli occhi e vede trenta carabinieri con altrettanti mitra puntati su di lui che gli intimano di non muoversi.
Lo portano in caserma per tre ore e poi lo trasferiscono all’Ucciardone, il carcere di Palermo, dove Filippo viene finalmente a conoscenza delle motivazioni di quell’arresto: partecipazione a strage di mafia, articolo 416 bis, associazione di tipo mafioso. E tutto si ricollega a quella strana coincidenza sull’indirizzo del suo appartamento e alla notizia letta il 6 agosto dell’anno prima: Ninni Cassarà, vicequestore di Palermo, rientrando nella sua abitazione a via Croce Rossa al civico 41 a bordo di un’Alfetta e scortato da due agenti, viene assassinato da un gruppo di nove uomini appostati sulle finestre e sui piani dell’edificio di fronte.
Un errore giudiziario che interviene a ribaltare la vita di un giovane di soli ventisei anni e che di lì a poco lo porterà ad incrociare Giovanni Falcone, che in quegli anni è già il magistrato che lotta aspramente contro la mafia, con l’unico obiettivo di porvi fine perché come dice lui “la mafia non è affatto invincibile, è un fattore umano e come tutti i fattori umani, ha un inizio e una fine”.
La Sicilia è scritta nel DNA di entrambi. Come sostiene Falcone, “è il segno di un’identità. Noi abbiamo avuto cinquecento anni di feudalesimo. Se ci si rendesse conto che il siciliano è prima di tutto siciliano, poi medico, avvocato o poliziotto, si capirebbe già meglio.” Questo a Filippo è molto chiaro, e forse è proprio per questo che non si oppone al destino che lo porta ad intrecciarsi sempre più con il lato oscuro della sicilianità.
Lui non si arrende anche se ha la sensazione che nulla cambierà, perchè è difficile cambiare, gli sembra di sentire le parole del Principe di Salina nel Gattopardo, scritte da un altro siciliano illustre che ha saputo cogliere quell’essenza, Tommasi di Lampedusa “i siciliani non vogliono cambiare perché si sentono perfetti. In loro la vanità è più forte della miseria. Perché tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi.” Eppure la capacità di “cambiare” caratterizzerà il futuro di Filippo tanto da portarlo a stravolgere completamente la sua vita. Da fotografo a fotografato, da soggetto ad oggetto, nel giro di pochi mesi tutto si ribalta, adesso è lui ad essere colpito dai flash dei colleghi. Le stragi di mafia che fino ad allora venivano impresse sulla sua pellicola, adesso si imprimono a forza nella sua esistenza.
È il 1986 e l’aria che si respira in Italia sembra quella della giustizia, almeno in parte. Non solo è cominciato il maxi processo a Palermo, ma in marzo il tribunale di Milano condanna Michele Sindona all’ergastolo quale mandante dell’omicidio di Giorgio Ambrosoli. In settembre la corte d’appello assolve con formula piena il conduttore televisivo Enzo Tortora, accusato ingiustamente di associazione per delinquere di stampo camorristico e in dicembre, dopo dodici anni dall’accaduto, si conclude anche il processo d’appello per la strage dell’Italicus con la condanna di Mario Tuti e Luciano Franci, assolti in primo appello.
Quello stesso anno ad Hollywood, sembra quasi una coincidenza incredibile, mentre nell’aula bunker dell’Ucciardone si avvicendano al banco degli imputati i più temibili capimafia, l’Onore dei Prizzi di John Huston ottiene otto nomination agli Oscar, di cui uno vinto dalla figlia Angelica come miglior attrice non protagonista. E’ la prima vera satira di mafia eccentrica, nera e grottesca, dove la retorica dell’onore viene sbeffeggiata. Filippo La Mantia in realtà quell’anno non vuole sentir parlare di giustizia, lui che è stato accusato ingiustamente di aver fornito la sua abitazione ai killer di Cassarà, quel 6 agosto del 1985 in Via Croce Rossa.
Per Filippo la vita è diventata un incubo. Fino a qualche giorno prima fotografava gli omicidi di mafia per il giornale ed ora si trova ad essere implicato proprio in uno di quelli. Il carcere è la sua nuova realtà, un’istantanea che sembrerebbe quasi appartenere alla vita di un altro. Il suo orizzonte è quello di una cella d’isolamento per i primi venti giorni della sua detenzione. Una violenza psicologica inaudita, al buio, dove per non impazzire Filippo conta le mattonelle che ricoprono quei due metri quadrati a sua disposizione, conta le cuciture dei suoi abiti. Lo fanno uscire solo quindici minuti al giorno, alle sei del mattino per una boccata d’aria, e poi di nuovo le tenebre, le tenebre dell’ingiustizia.
Fortunatamente Filippo è un ragazzo equilibrato. Per distrarsi e non lasciarsi sopraffare dalla disperazione, ogni giorno si esercita col Karate. La disciplina dello sport gli viene in soccorso. Prova e riprova le mosse che conosce, tiene allenato il fisico e allo stesso tempo il cervello. Dopo quei venti giorni di isolamento gli viene assegnata una cella. Nell’aula bunker proprio a pochi metri da lui si sta svolgendo il maxiprocesso. Ci si chiede come possa coesistere tanta ingiustizia resa ad un unico cittadino, con il senso di responsabilità e riscatto che sta in quei 475 imputati del maxi processo che porterà la corte a pronunciare 342 condanne, 19 ergastoli per un totale di 2665 anni di carcere. E la risposta è sempre la stessa: è la Sicilia.
La galera è il luogo dell’incontro, non solo con l’altro fuori da sé, ma anche con l’altro dentro di sé, è qui che Filippo impara a conoscersi. Questa esclusione forzata dal resto del mondo gli consente di riflettere sulla vita in generale, sulle aspettative che uno ha, sui suoi sogni. La sua mente comincia ad aprirsi come non aveva mai fatto prima e ad esplorare nuovi pensieri.
Il rispetto per le persone che gli stanno accanto e con le quali condivide ogni attimo della sua esistenza, cresce man mano che passa il tempo. Non importa quali siano i reati che hanno commesso. In prigione si è nudi, ci si spoglia di tutto e si torna ad essere solo uomini. È una lezione di vita che non dimenticherà mai.
Non ha mai avuto difficoltà nell’instaurare rapporti con gli altri, lo stesso fa anche qui. Diventa un punto di riferimento, forte anche della sua innocenza, porta avanti le sue giornate scandite da piccole cose, quelle piccole cose che lo aiutano a non perdere il contatto con la realtà, come il dormire, che diventa il vero spartiacque del susseguirsi identico delle giornate, o le confidenze con gli altri detenuti che allenano la sua sensibilità e, fondamentale, il rito del cibo, non solo per il suo significato simbolico di nutrimento, ma anche per quello della condivisione. Sapere che la giornata ha degli appuntamenti obbligati che lo tengono ancorato alla sua fisicità senza far partire la mente verso la follia, è un sollievo per Filippo. Da bravo siciliano avverte l’importanza della cucina, che non è solo alimentazione, ma è tradizione, storia, cultura. La sua terra gli ha lasciato anche questo in dono, la capacità di trovare nei profumi, nei sapori e nei colori del cibo l’accesso ad uno stato superiore della coscienza.
Il carcere è un’esperienza che gli sta facendo fare un percorso di crescita. Il cibo è uno dei riti al quale tiene di più, non solo perché serve a scandire lo scorrere del tempo, ma anche per questo significato simbolico. I compagni di cella, che arrivano anche dalle campagne, lo aiutano a riscoprire i sapori della vecchia tradizione. La mancanza di attrezzature e materie prime inoltre aguzza il suo ingegno. Cucinare non è facile in quelle situazioni, però col tempo diventa una necessità. Fornelli da campo, niente coltelli e frigoriferi arrangiati con del ghiaccio e i risultati sono incredibili. Tutti vogliono partecipare alla sua mensa, mangiare con lui diventa un appuntamento obbligato.
Cucinare è il suo nuovo modo di esprimere la sua passione per la sua terra. Non ci sono più scene di delitti da immortalare in uno scatto, ma ci sono anni di tradizioni da condensare in un piatto. La differenza con la fotografia è che qui non si celebra più la morte, ma la vita. Il passaggio dalla Sicilia dei delitti di mafia alla Sicilia dai sapori e profumi di una pietanza, è il passaggio che lo consacra al suo nuovo destino. Ogni cosa ha un sapore diverso adesso, quasi tutto trova una nuova collocazione nel corso degli eventi.
Nel frattempo spera che la sua permanenza là dentro non debba durare ancora molto. Lui è innocente. Il suo avvocato non fa altro che cercare il modo per farlo uscire.
Ci penserà Giovanni Falcone che si interessa al caso, come ricorda Filippo “lui sapeva come erano andate le cose, sempre, perché lui leggeva oltre”. E così è proprio grazie al suo intervento, che si verifica che l’appartamento di via Croce Rossa, da dove spararono i killer al momento dell’agguato a Cassarà, non era più intestato a La Mantia.
Il 24 dicembre del 1986, dopo quasi sette mesi di carcere, Filippo può finalmente tornare a casa. Quel giorno ci sono meno tre gradi e nevica. A Palermo non nevica mai. Sembra che anche il cielo voglia contribuire a cancellare quell’errore, ricoprendo la città e i protagonisti della vicenda con un innocente velo bianco. Una folla di almeno cinquecento persone lo aspetta da sei ore là fuori, mentre là dentro, lungo il corridoio che deve percorrere per raggiungere l’uscita, una scena che non scorderà mai: centinaia di braccia che spuntano dalle celle chiuse per salutarlo e applaudire alla sua liberazione. Filippo è felice di uscire, ma allo stesso tempo gli dispiace non poter passare quella serata, quella della vigilia di Natale, con quelli che per sette lunghi mesi sono stati il suo unico universo, proprio per loro aveva pensato di cucinare il cenone e di condividere intorno a del cibo preparato da lui la tipica festività della famiglia. Anche se non lo farà, quei volti, quei ricordi, le lunghe chiacchierate con i compagni, lo accompagneranno per sempre.
Con la sua liberazione Falcone gli ha dato la possibilità di trasformare quell’esperienza in un’opportunità. Una cosa è certa, basta con i morti ammazzati, basta con le fotografie. Adesso si deve dedicare a ricostruire il suo futuro. Questi sono gli anni dell’apprendistato per una nuova vita.
Il cibo è la frontiera con la quale vuole confrontarsi, tornado prepotentemente alle origini, alla sua Sicilia. Sente che cucinare è la sua vocazione. Lo fa per le sue donne, per la famiglia, per gli amici. Si diverte. Adesso, quello che sembrava essere solo un hobby, è diventata una professione. La Mantia, il cui curriculum vanta certamente esperienze di ogni genere, è il cuoco che tutti conoscono, l’ambasciatore della cucina siciliana nel mondo. Il suo segreto forse è non dimenticare mai le sue origini e mettere la passione in ogni cosa che fa. Sia i suoi piatti, sia i suoi scatti seguono due regole essenziali: pulizia e rispetto. I profumi e i colori della Sicilia arricchiscono il tutto, dietro i fornelli così come dietro l’obiettivo.
Nella sua mente rimane però scolpito quel periodo, non solo perché venire dalla Sicilia significa fare i conti quotidianamente con quel genere di cronaca, ma anche perché colui che è stato artefice della sua liberazione, Giovanni Falcone, ha subito il triste destino della strage di Capaci il 23 maggio del 1992. Come è scritto nel libretto de “Il tempo sospeso del volo”, un’opera teatrale dedicata a lui, “Falcone è il Maradona dei magistrati, per fermarlo bisogna fargli lo sgambetto”, e così è stato.
La Sicilia è anche questo, terra generosa, ma contraddittoria, quella che ha messo in galera un innocente ma che gli ha anche permesso di diventare il cuoco di successo che è. E visto che l’estate sembra essere nella sua vita (e nella vita della Sicilia) il tempo per i grandi eventi, il 31 luglio Filippo lascerà dopo anni l’Hotel Majestic a Roma per affrontare una nuova sfida su rai 5.
La fotografia ormai è solo un ricordo. Quell’incrocio con Falcone rimane però il suo scatto migliore, quello che porta dentro al cuore, un po’ come tutti noi, anche se forse per lui c’è qualcosa di più.