Tutto succede nell’arco di poco meno di 100 anni, dalla fine del ‘700 alla fine dell’800. Difficile ammetterlo, soprattutto in questa sede, ma è stato un francese a pensarci per primo, il Conte Mede de Sivrac, che in piena Rivoluzione trova il tempo di brevettare e costruire una strana macchina che battezzerà velocipede o celerifero. Si tratta di un’asta di legno montata su due ruote alla quale viene impresso il movimento con la spinta dei piedi. Forse l’esigenza di trovare un mezzo veloce per scappare dalla ghigliottina gli ha facilitato il lavoro. Nel 1817 è la volta di un tedesco, il barone Karl von Drais, che brevetta, tramite il suo rappresentante francese – di nuovo i cugini d’oltralpe – la Draisienne, italianizzata draisina, con ruota anteriore sterzante e molto più grande della posteriore, ma ancora senza pedali. Nel 1861 l’ennesimo francese, Ernest Michaux, lavorando nell’officina meccanica del padre, pensa di montare i primi pedali alla sua draisienne fissandoli al perno della ruota davanti. Da questo momento in poi il termine per indicare questa stranissima “cosa”, composta da due ruote, una posteriore piccola e una molto grande davanti, dotata di pedivelle, tenuta insieme da una specie di telaio ed un sellino posto sopra la ruota anteriore, sarà Biciclo o Bicicletta.
150 anni o poco più da quella prima parola “Bicicletta” e 150 anni o poco più della nostra storia d’Italia. È proprio in sella al mezzo che ci riporta tutti alla nostra infanzia che ripercorriamo l’infanzia di una nazione. Per non far torto a nessuno, visto che si è parlato soprattutto del contributo francese, va detto che a casa nostra, il buon vecchio Leonardo, nel suo Codice Atlantico mostra già nel 1490 uno schizzo di velocipede addirittura con trasmissione a catena, novità che sarà introdotta in concreto solo verso la fine dell’800. Allo stesso modo, sempre prima dei francesi, in Inghilterra su una vetrata di una chiesa del 1642 pare vi sia rappresentato un angelo seduto su una trave a forma di cavalluccio appoggiata su due ruote. Per essere ancora più pignoli, nel 9.500 a.c. i Cinesi, che con Leonardo fanno a gara a chi scopre di più, utilizzavano carri su due ruote, così come gli Egiziani e i Sumeri. Insomma la bicicletta, o almeno la sua idea, si perde nella notte dei tempi.
Ma noi ci accontenteremo di parlarne per quell’arco di tempo che ci serve a veder scorrere attraverso la sua velocità silenziosa, le vicende del Belpaese.
Quella che il Metternich una quindicina d’anni prima aveva definito “un’espressione geografica” è ancora un’Italia per certi versi isolata in molte zone. Tra le cause anche una rete viaria piuttosto carente. E se vogliamo percorrere la storia del Paese attraverso un mezzo di trasporto, non possiamo tralasciare la storia delle sue strade. Una volta inventata la bicicletta, infatti, è necessario inventare, si fa per dire, la strada.
Le strade nel neonato Regno d’Italia. Dal 1861 al 1864 viene promossa e realizzata un’importante serie di studi sul territorio. Lo scopo è definire nei dettagli la situazione della viabilità nell’intera penisola, particolarmente per quanto riguarda il Sud, dove molte zone sono ancora del tutto isolate. Basti pensare che in Calabria i comuni senza allacciamenti stradali sono 371 su 412, in Abruzzo 256 su 323. Con la legge del 20 marzo del 1865 n. 2248 vengono stabilite le norme di competenza nella costruzione, manutenzione e conservazione delle strade. La manutenzione è affidata a lavoratori specializzati dipendenti dello Stato chiamati “cantonieri” e alloggiati in apposite case dislocate a intervalli regolare lungo le strade stesse. L’allora ministro dei lavori pubblici De Vincenzi, grande sostenitore degli investimenti per la loro costruzione sostiene che “Niuna cosa ha maggiore influenza sulla produzione di un paese che la viabilità. Le strade vivificano l’agricoltura, creano le industrie, danno origine ai commerci. La statistica delle strade è la statistica della ricchezza di un paese.” Dal 1864 al 1904 la rete viaria italiana passa da 22.500 km a 26.100 km.
Ed è su queste strade che allacciano rapporti e legami tra vecchi paesi e nuovi italiani, che si muovono con equilibrio incerto le prime biciclette. Il manto stradale è per la maggior parte in macadam, pavimentazione costituita da pietrisco che, misto a sabbia e acqua, viene spianato da un rullo compressore. Una buona soluzione per cavalli e carri, ma pericoloso per le due ruote non ancora dotate di pneumatici. Il mezzo fra l’altro non è agevole da manovrare nel suo insieme, anche per il peso di ben 30 kg, e le cadute non risparmiano nessuno. Poco dignitose gambe all’aria che portano al divieto dell’uso della bicicletta per le donne, per i sacerdoti e gli ufficiali. La bicicletta però, ideata all’ombra della rivoluzione francese esige la sua rivoluzione e il Belpaese, fresco di nuova identità, accetta. Nascono le prime associazioni di ciclismo turistico e il corpo dei bersaglieri, che nella corsa ha la sua forza, le adotta subito senza pensarci troppo.
In una rivista americana del 1875 compare un articolo che parla proprio di loro e scrive “In Italia un corpo di soldati detto Bersaglieri usa velocipedi per consegnare messaggi durante le manovre. Le biciclette hanno lanterne fanali, arma individuale e sacca. I Ciclisti nel consegnare messaggi raggiungono una velocità di 12 miglia orarie.”
Sono storia, non storie, questi nuovissimi mezzi, entrati in prova in caserma nel 1878 che partecipano fra l’altro alle grandi manovre nelle Marche. Solo una decina d’anni più tardi ogni reggimento avrà tre biciclette e nasceranno così le prime milizie ciclistiche. Il XX secolo bussa alle porte e si contano già quattro compagnie di bersaglieri ciclisti che diventano Corpo Nazionale. Dopo pochi anni la Bianchi riceve una commissione per fornire le prime biciclette pieghevoli ai reparti ciclisti dell’Esercito Italiano. Durante la guerra saranno 12 i battaglioni a combattere con la bici in spalla.
A rendere tutto molto più confortevole in sella alla bicicletta e non solo per l’impiego militare, è l’invenzione di un veterinario scozzese, John Boyd Dunlop, che utilizza al posto delle gomme piene, tubi di para vulcanizzata gonfiati ad aria: sono i primi pneumatici ed è il 1889. Quello stesso anno l’Italia perde un suo grande inventore, Antonio Meucci, che con un connazionale di Dunlop, Alexander Graham Bell, si contende un brevetto: quello del telefono. A distanza di anni si può ammettere senza scontentare nessuno che l’invenzione del trasferimento elettrico della voce è italiano, mentre il trasferimento di corpi su ruote più morbide, è scozzese. E se la bici diventa un po’ più comoda e meno rigida, anche gli italiani cominciano a sentirsi un po’ meno incerti sulla strada del consolidamento della nazione. Si comincia a spostarsi dalle campagne alla città, del resto la modernizzazione del paese passa anche attraverso questo. Il collegamento con i villaggi sperduti e arretrati ha perciò una valenza sociopolitica, non solo di efficienza dei trasporti. Mentre scarpe impolverate di curati, messi, postini e operai spingono sul pedale senza sosta per avvicinarsi ad un nuovo orizzonte, sullo sfondo Marinetti che è alle prese con il Manifesto futurista, sostiene che il mondo si sia arricchito di una nuova bellezza: la velocità.
Ed è proprio la velocità, anche se quella silenziosa della bicicletta e non quella ruggente dell’automobile, che ci accompagna in questo viaggio in Italia. La velocità delle guerre, della trasformazione sociale, dei grandi cambiamenti politici e delle nuove scoperte tecnologiche e di comunicazione. E a proposito di velocità di comunicazione, in quegli anni Guglielmo Marconi riceve il premio nobel per la fisica per aver trasmesso via radio il primo messaggio transoceanico. È l’Italia del XX secolo, giovane, che corre verso la sua definizione in piena rivoluzione industriale dove la situazione di relativo benessere è turbata dagli scioperi massicci di una parte della massa operaia sempre più numerosa e scontenta, nonostante l’avvento dei governi della corrente liberale di Giolitti. La bicicletta è un sogno per le famiglie, è la possibilità di potersi spingere lontano a cercare lavoro, anche se a basso costo e senza nessuna garanzia, ma pur sempre lavoro. La bicicletta sembra essere l’unico vero simbolo di democrazia. E in tutto questo pedalare non tardano ad arrivare le competizioni. Sono gli albori del ciclismo, che prima di essere uno sport è “una necessità sociale”, come recita un manuale del 1910.
Il mito del ciclismo in quegli anni è vero, genuino, è fatto di eroi che si possono toccare. Come scrive a proposito Indro Montanelli “Costante Girardengo fu il mio ultimo idolo prima che l’adolescenza giungesse a spazzare dal mio cielo, che ne rimase disperatamente vuoto, ogni epica traccia di eroi. Nei sogni, nelle fantasie della mia generazione, Girardengo viene, nel tempo, subito dopo Testa di pietra e il Corsaro nero sui quali aveva insieme un vantaggio e uno svantaggio: quello di essere vero e di poterlo, i pochi fortunati, toccare”. L’Italia sta per toccare anche le due guerre mondiali. In sella a quelle biciclette aspre e dure ci sono portaordini, curati di campagna, infermiere ed operaie, ma anche gli eroi del giro d’Italia.
La prima guerra mondiale finisce e nell’aria c’è già odore di fascismo. Mentre Girardengo sfida i cugini d’oltralpe, a Parigi al velodrome d’Hiver, il suo più accanito sostenitore Sante Pollastri, viene preso dalla polizia. La sua è una storia che con la bicicletta e la situazione economico-sociale del Paese è legata a filo doppio. Come dice De Gregori nella sua canzone, il Campione e il bandito, dedicata proprio ai due amici di Novi Ligure, “fu antica miseria o il torto subito a fare del ragazzo un feroce bandito”. Una cosa è certa, la sua passione per il ciclismo lo fa cadere nelle mani della giustizia quel 1925.
L’Italia si affolla nelle strade per vedere questi giovani in sella alle loro bici, il ciclismo è poetico, ma anche epico, tutti si sentono partecipi della fatica dei corridori che lottano per raggiungere la meta. Il garzone di bottega o il fornaio, che usano la bicicletta per portare in giro la spesa, pedalano e pensano ai loro idoli. Si sentono vicini alle loro vittorie. Se loro vincono pedalando in gara, vincono un po’ tutti pedalando nella vita. Anche se “vincere” sta per assumere un significato piuttosto nefasto nelle parole che arrivano dalla finestra di palazzo Venezia a Roma.
La seconda guerra mondiale riempirà le strade di macerie e le famiglie di lutti. La vera vittoria è quella di una nazione che vuole risollevarsi dalle brutture del conflitto per darsi una nuova opportunità. Le biciclette, lontani ancora i tempi dall’essere soppiantate dall’auto, sono il mezzo di trasporto più diffuso e fanno lo slalom tra i resti degli edifici abbattuti e le possibilità di ricostruire un futuro. E anche le biciclette del giro d’Italia, interrotto negli anni della guerra, possono ricominciare ad essere ingrassate a dovere. Tra tutte quella di Gino Bartali che ha già dato l’avvio alla poetica ed eterna rivalità con il giovane e promettente Fausto Coppi. Il primo giro d’Italia del dopoguerra, quello del 1946, viene ribattezzato il Giro della rinascita.
Quella del dopoguerra è l’Italia minacciata dalla carestia che aspetta il grano dalle navi americane, l’Italia delle signorine che si svendono ai soldati venuti a liberarci dal nazifascismo, l’Italia degli sciuscià. Ma è anche l’Italia di chi monta in sella una calda mattina di fine primavera e si rende conto che la strada che scorre veloce sotto le sue gomme potrebbe non avere lo stesso significato al ritorno a casa. È il 2 giugno del 1946. Repubblica o monarchia? Bella domanda. Non solo, al referendum istituzionale si affianca pure l’elezione dell’assemblea costituente. Appuntamenti con la storia ai quali chi abbia compiuto i 21 anni d’età è chiamato a rispondere. In ogni famiglia il rito è lo stesso: una spuntatina ai baffi, biancheria pulita preparata dalla moglie sul letto, giacca, gilet e pantaloni. Un colpo di spugna sulle scarpe impolverate e via verso il seggio.
Prima di uscire due sono le cose da non scordare, una difficile farlo poiché così abituale e cioè prendere il cappello, l’altra assolutamente nuova per l’occasione e quindi più esposta all’errore: aspettare anche lei. Sì, perché anche le donne sono chiamate per la prima volta alle urne. Le più coraggiose affrontano il viaggio verso il voto sedute sulla canna della bicicletta del marito. Le più sagge, visto anche l’incertezza del manto stradale dell’epoca, lo seguono a piedi.
Nel pomeriggio del 4 giugno si annuncia che la Repubblica ha un vantaggio di 1milione 800 mila voti, ma i monarchici parlano di brogli. Si dovrà attendere il giudizio della corte di cassazione che nella sala della Lupa a Montecitorio il 10 giugno 1946 leggerà i voti definitivi: Monarchia 10.709.423 voti, Repubblica 12.718.019.
Sul Campidoglio sventola il tricolore repubblicano. La strada che passa sotto alle gomme delle bici al ritorno a casa non è davvero più la stessa. Sia per le forze dell’ordine, immortalate nelle loro pedalate da Pavese “a ore diverse passava in bicicletta il maresciallo dei carabinieri”, sia per i ciclisti raccontati da Palazzeschi “quei rari che a piedi o in bicicletta corrono ai lavori mattinieri passan fischiando”, tantomeno per coloro che sono ritratti in un quadretto molto evocativo da Italo Calvino “uscì su un altro ballatoio, era ostruito da una bicicletta ruote all’aria. Un omino in tuta cercava un buco in un pneumatico immergendolo in un catino.” La bicicletta, sia essa applicata alle forze dell’ordine, alla letteratura, alla vita o allo sport, diventa ingrediente fondamentale per la sopravvivenza nel secondo dopoguerra, come racconta Vittorio de Sica nel 1948 in “ladri di biciclette”.
Legata alla proprietà del mezzo di trasporto a due ruote c’è l’intera esistenza del protagonista e tutta la miseria di un paese che sta cercando di rialzarsi. L’Italia è quella contadina piena di senzatetto e di affamati. La disoccupazione è del 19% e metà del meridione è povera. La bicicletta è l’unico mezzo di locomozione, un bene prezioso: la usano gli operai, le mondine, i giovani garzoni di bottega, i postini, i parroci, i metronotte per non disturbare la gente che dorme, la usano tutti. Ne circolano 3 milioni e pur di averne una si escogita qualunque tipo di truffa. Il ciclismo non può che essere lo sport che più appassiona gli Italiani: la bicicletta ha l’amore di tutti perché è cosa di tutti.
Nell’Italia del secondo dopoguerra ci sono 3 milioni di biciclette. Non è solo un mezzo di trasporto, ma una speranza per il futuro. Possederne una significa poter aver un lavoro, potersi spostare con facilità dalle povere campagne alle promettenti città. Il ciclismo coi suoi miti e i veri eroi è lo sport che unisce il Paese, una specie di linguaggio comune per far dialogare nord e sud e al quale affidare le speranze della rinascita.
Mentre i tifosi italiani si dividono tra Coppi e Bartali, gli elettori italiani si dividono tra la DC di Alcide de Gasperi e il PCI di Palmiro Togliatti.
Facile dare una colorazione politica anche ai due beniamini del ciclismo, Fausto il rosso e Gino il bianco. A maggior ragione dopo quel 14 luglio del 1948, una data che chiama alla mente la “rivoluzione”.
Sono le 11.45 del mattino. Togliatti sta uscendo da Montecitorio in compagnia di Nilde Iotti, quando un giovane siciliano, Antonio Pallante arrivato in treno a Roma pochi giorni prima, a distanza ravvicinata spara 3 colpi con la sua calibro 38, colpendo il leader del PCI alla nuca e alla schiena. Lo statista viene ricoverato d’urgenza e poche ore dopo il suo ferimento l’Italia è nel caos. Manifestazioni di protesta percorrono le strade delle città, i telefoni pubblici non funzionano, le ferrovie si bloccano, gli scioperi fermano le fabbriche. Sembra la guerra civile. Togliatti si salverà e sarà proprio lui a imporre ai membri più importanti della direzione del PCI di sedare gli animi e fermare la rivolta con quella frase detta a fil di voce “non perdete la testa”. Eppure c’è un altro protagonista sullo sfondo, che la leggenda vuole, abbia contribuito a moderare i toni dell’Italia nel delirio.
Proprio quel 14 luglio Gino Bartali si sta preparando per la tappa di montagna del Tour de France che si terrà l’indomani, ignaro di quello che sta avvenendo in Italia. Il suo ritardo sulla maglia gialla è di 21 minuti, un tempo incolmabile. Per lui non ci sono speranze. Ma De Gasperi, quella sera stessa, lo chiama al telefono per chiedergli di vincere. Una sua vittoria può rasserenare il clima in Italia. E lui quel 15 luglio firma una grande impresa sulle alpi francesi, vincendo per tutti gli italiani, senza distinzione politica.
La bicicletta è la grammatica sulla quale scrivere una nuova storia, una storia che unisce. Gli anni ’50 sono alle porte e con loro un rinnovato benessere per tutti. La bicicletta è sinonimo di svago, di leggerezza, la si usa per le gite in campagna, per andare al mare. La moda femminile agevola in un certo senso anche il suo utilizzo alle donne. Gonne più corte e più larghe permettono di salire in sella evitando poco eleganti acrobazie. Le gambe cominciano a farla da padrone. Vedere tendere il polpaccio delle signorine intente nell’imprimere la spinta al pedale è il timido panorama sul quale si affaccia l’Italia cattolica timorata di Dio.
Le bellezze in bicicletta sono tutte quelle italiane che cominciano a prendersi cura del loro corpo in maniera differente e non solo attraverso la nuova moda che scopre sempre più cm di pelle. Dall’America arrivano cosmetici, profumi, smalti per le unghie e persino la ceretta. Ma con questa nuova consapevolezza della donna arrivano anche gli scandali. Il 20 luglio del 1950 all’inizio della sua attività parlamentare, Oscar Luigi Scalfaro che si trova in una assolata giornata romana in un ristorante in Via della Vite, ha un vivace alterco con una signorina che porta un abbigliamento sconveniente a detta dell’onorevole, poiché mostra le spalle nude. Un episodio che farà molto scalpore e che diventerà noto come “il caso del prendisole“.
Solo qualche anno più tardi, nel 1953, arriva in Italia il rapporto Kinsey, uno studio condotto da un medico statunitense sul comportamento sessuale degli americani. Le riviste italiane che ne riportano i dati si autocensurano: seno è sostituito con torace, sessuale diventa sentimentale e così edulcorato lo studio del “dottor sesso” non suscita grande clamore. Mentre a soddisfare la curiosità morbosa dell’Italia in fatto di storie torbide a sfondo sessuale, interviene un caso di cronaca: il misterioso caso della morte di Wilma Montesi. Non c’è solo l’Italia perbenista, ma c’è anche un’altra Italia dove domina una doppia morale, quella dell’essere e quella dell’apparire. Una morale per le donne e una per gli uomini. La stessa morale che sta per colpire uno degli eroi del ciclismo.
È proprio durante una gara ciclistica che Giulia Occhini, la chiacchierata compagna di Fausto Coppi, indossa un cappotto bianco mentre ai bordi delle strade lo incita a vincere, abbigliamento che gli varrà il soprannome di “dama Bianca”. Lo scandalo della loro relazione scoppia perché i due sono sposati quando si innamorano l’uno dell’altra e, essendo ancora lontano il referendum sul divorzio, decidono di vivere comunque alla luce del sole la loro relazione. Lui, il mito, diventa un peccatore e lei la quint’essenza dell’immoralità. Per la chiesa e per la legge italiana il matrimonio è una cosa sacra. Gli adulteri vanno perseguiti. Così nella primavera del 1955 il tribunale di Alessandria li processa e li condanna rispettivamente a 2 e 3 mesi con la condizionale. Il ciclismo comunque non smette di avere il suo fascino, così come la storica rivalità tra Fausto e Gino. La televisione fa il suo ingresso nelle case degli italiani e i loro idoli adesso intrattengono il pubblico non solo in sella alle loro bici.
Ironici e veri, come due amici si sfidano al musichiere del 1959. Nel dicembre dello stesso anno Coppi è febbricitante, i medici diagnosticano una grave influenza. Il 2 gennaio del 1960 Fausto muore. Era malaria. La poesia del ciclismo si riversa anche sui giornali dell’epoca che, attoniti per la notizia, non perdono occasione di volare alti, come faceva lui, titolando “l’airone ha chiuso le ali”. Si spegne un mito e nello stesso tempo il fascino della bicicletta sta perdendo quota, non solo nello sport, ma anche nella vita di tutti i giorni. Le due ruote adesso sono quelle delle moto. Il “bisogno” di mobilità individuale del secondo dopoguerra ha fatto la fortuna della Vespa e della Lambretta. La prima, ad esempio, è passata dalle 2.500 unità costruite nel 1946 al milionesimo esemplare costruito soltanto 10 anni dopo, nel 1956. Le immatricolazioni di due ruote in Italia arrivano a 400mila unità, un vero e proprio record se si pensa che nel 1951 i motoveicoli targati erano poco meno di 40mila. Dati che stanno aprendo la strada all’invadenza dell’auto. Ormai non è più tempo di ladri di biciclette di De Sica ma de “il sorpasso” di Dino Risi.
Il boom economico ha bussato alle porte di tutti. Gli anni ’60 sono su 4 ruote. Adesso si spinge sul pedale dell’acceleratore. La bicicletta rimane un giocattolo per i bambini, e ancora un mezzo di trasporto e di lavoro nei piccoli paesi o nelle campagne che si vanno sempre più svuotando, soprattutto al sud.
Il motore ha preso il sopravvento e anche l’auto sta entrando nei garage di molti italiani. Il tasso di motorizzazione italiano passa dai 6 veicoli ogni 1.000 abitanti nel 1950 ai 32 veicoli ogni 1.000 abitanti nel 1960 grazie anche al modello FIAT della 600 ma soprattutto a quello della 500, geniale intuizione della casa automobilistica italiana, dal bassissimo costo di produzione e dal consumo ridotto. Un sogno accessibile per molti.
A pedalare è l’economia. L’Italia viaggia ormai su quattro ruote e la rete viaria italiana si espande. Nel 1964 si inaugura l’autostrada del sole che unirà Milano a Napoli. L’ autostrada è proprietà dello stato ed è il simbolo della ripresa economica.
Unità attraverso le strade e nelle piazze folle di manifestanti. Le gambe che spingevano sul pedale della bicicletta per trovare un lavoro negli anni ‘40, adesso marciano in corteo per far valere i propri diritti. Dal maggio francese arriva anche in Italia la contestazione giovanile. Dalla swinging London arriva la minigonna che mostra sfacciatamente molto più del polpaccio tornito delle bellezze in bicicletta degli anni ‘50. E dalla Tv e dai giornali di casa nostra arriva una tragica notizia. È venerdì 12 dicembre del 1969. Vengono salutati così gli anni ’60, con la strage di Piazza Fontana e l’Italia si avvia verso i ’70, i cosiddetti anni di piombo.
Le biciclette sono quelle “abbandonate sopra l’erba e poi noi due distesi all’ombra” cantate nella canzone del sole da Lucio Battisti, sono biciclette complici di randez vous amorosi lontani dalle città, dalle brutture delle bombe, per riscoprire un po’ della poesia che sembra essersi ormai persa in ogni aspetto della vita. La bici è anche quella delle domeniche a piedi del 1973, quando l’austerity proibisce la circolazione delle auto e per un breve periodo le due ruote riconquistano la città. Sono nuovi scenari che meravigliano tutti. Ivo Carezzano dalle pagine del Secolo cerca di dare consigli ai genovesi che si trovano a dover rimontare in sella dopo tanti anni di astinenza. “Sempre in corsa, i genovesi, per la bicicletta: una prima corsa per accaparrarsi la bici, un’altra volta, quella vera, per godersi finalmente il tanto desiderato velocipede. Ai genovesi tipo “veloci Embriaci” proponiamo due itinerari: uno per tutti i ciclisti della domenica, uno riservato agli “aficionados” del pedale. L’obiettivo è però sempre uno: Genova, città sconosciuta. In fondo, i primi risultati ci dicono che i genovesi in bici non saranno poi molti: i negozianti hanno esaurito in un batter d’occhio tutte le scorte. E’ stata una riscoperta.”
Quando il 12 e 13 maggio del 1974 si chiamano a votare gli italiani per abrogare la legge sul divorzio al 59,30% di italiani che hanno votato NO, ma probabilmente anche agli altri, non può che venire in mente con un po’ di malinconia la sventurata vicenda di Coppi, costretto a vivere i suoi ultimi anni di vita con il peso di un amore ostacolato dalla legge. In Italia si vota al referendum sul divorzio e negli Stati Uniti Gary Fisher sta pensando con degli amici a modificare una vecchia bicicletta per fare lo slalom tra le sequoie di Tamaplapis. Nasce proprio nel 1974 la down-hill ribattezzata poi Mountain bike, che arriva in Italia negli anni ’80 col nome di “rampichino”. Sarà proprio con la Mountain Bike e le sue infinite variazioni in city bike, adatta alla città e gli “ibridi”, per poter pedalate sull’asfalto come nei campi, che la bicicletta rientrerà nelle case degli italiani adulti.
Siamo agli anni ‘90. Cambia la visione in sella alla bici, cambia il concetto di fatica e movimento, almeno per il cicloturismo. Il ciclismo professionista invece, che fatica come sempre nel Giro d’Italia, nel Tour de France e nelle altre gare storiche, non sembra ritrovare l’entusiasmo di un tempo. Forse mancano gli eroi. E a proposito di eroi, la mafia sta per toglierne di mezzo due: il giudice Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Mentre il Paese si sente sconfitto e affranto per quanto sta succedendo, un giovane ragazzo emiliano partecipa al suo primo giro d’Italia per professionisti: è Marco Pantani. Il ciclismo rivive con lui l’epica e la popolarità dei tempi di Fausto Coppi. Peccato sia andata com’è andata.
Con il nuovo millennio le rivoluzioni in sella alla bici sono anche quelle degli ambientalisti, il nostro pianeta va preservato e per farlo dobbiamo tornare alle vecchie abitudini, laddove possibile. Fra le città migliori al mondo per i ciclisti nessuna città italiana, ahinoi.
Più piste ciclabili in città sono sinonimo di progresso, ma anche di economia che funziona, secondo uno studio del dipartimento dei trasporti di New York. Ecco perchè siamo così lontani dalla ripresa in Italia. Compare infine il bikesharing, un sistema di biciclette condivise per una mobilità sostenibile, proprio mentre la situazione politica ed economica è tornata ad essere insostenibile. E meno male che in questa confusione compaiono anche progetti che danno nuove speranze come quello di Rumundu.
Ma quanto dobbiamo ancora pedalare per essere al pari del resto del mondo? E a chi ci dice “avete voluto la bicicletta, ora pedalate” rispondiamo “magari fosse così semplice”.