Oche ma buone.

Ottavia aveva appena cominciato, ma già si sentiva inadeguata. Le avevano sempre detto che era un’oca e nonostante ciò si era sempre battuta per sembrare altro, chissà poi perchè. Finché aveva finito per cedere. Così tramite un amico si era presentata ad un colloquio per un posto alla Oche ma Buone e l’avevano presa.

Le sue penne erano decisamente di ottima qualità, il loro calamo era capace di trattenere una grande quantità di inchiostro e di rilasciarlo gradualmente sul foglio come se fossero cresciute solo per questo, per dare all’estro del poeta la sua promessa d’eternità. Non parliamo poi delle piume, un ammasso cheratinico sapientemente assemblato dalla morbidezza mai vista e in grado di trattenere il caldo, come la primavera le rondini. Pur essendo un  impiego stagionale, ad Ottavia non piaceva affatto vedere ogni mattina ispezionate le sue ali in cerca di materiale. Non voleva essere una miniera per giovani scrittori e il companatico per vuote lenzuola. Aveva però un progetto e per realizzarlo doveva tenere il becco chiuso e lasciarsi arruffare l’abito quotidianamente.

Sognava di riscoprire il gusto del viaggio, voleva poter visitare nuovi continenti senza sentirsi per forza un’emigrante. Era stufa di mescolarsi alle altre migliaia di oche che partivano per quelle gite organizzate due volte all’anno che tanto odiava, quelle dove s’intonavano canti di gruppo a colorare l’aria di falso orgoglio d’appartenenza.

Certo che quando le avevano raccontato come se la passavano le sorelle francesi, aveva esclamato “ci vuole un bel fegato a sentirsi appagate nel farsi rimpinzare di cibo e basta“. La fine che non avrebbe mai voluto fare.

L’incontro che cambiò definitivamente il suo punto di vista sul mondo non tardò ad arrivare. Una sera, alla fine del lavoro, decise di fermarsi al bar del paese, gestito da Oca Pito, un giovane di oca famoso per le sue abilità psicanalitiche. Era capace di stare ad ascoltare  i problemi dei suoi clienti anche per ore, trovando sempre una soluzione. Ottavia ordinò il suo cocktail preferito, il Duckquiri e non appena ebbe in mano il bicchiere, cominciò a raccontarsi. Ci mise una tale enfasi che Pito alla fine esordì con un “perbacco!” che riempì il locale. Tutta quella voglia di volare via, di andarsene in giro senza un vero motivo, per pura curiosità del mondo, senza una meta precisa non era di certo normale per un’oca. Cosa disturbava la nostra Ottavia a tal punto da far nascere questo desiderio anche fuori stagione? Pito cercò con alcune domande di capirci di più, indagando sulla storia familiare della sua cliente, che si era trasformata nel giro di due sorsi in paziente e di certo non nel senso di chi sa aspettare. Venne fuori che il suo uovo si era schiuso prematuramente e proprio per questo era sempre alla ricerca di qualcosa che per natura doveva arrivare dopo, ma che lei avrebbe voluto subito. Pito cercò di spiegare ad Ottavia che c’è un tempo per ogni cosa, che non è gratificante rincorrere sogni irrealizzabili, ma non è altrettanto giusto trincerarsi dietro a vecchie convinzioni nelle quali non si crede. Perché se voleva non essere più un’oca, non lo doveva dimostrare con unanticonformistica voglia di volare via, ma con una rivendicazione delle proprie attitudini, sempre in quanto oca. Ottavia alla fine di quel drink si era sentita alleggerita di un peso enorme, perché in fondo lo sapeva anche lei, essere oca le piaceva. “Finalmente ho capito” esclamò a un certo punto, “non devo dimostrare agli altri di essere qualcuno, ma solo di essere me stessa anche se sono un’Oca, anzi, proprio perché SONO un’oca.” Conoscere se stessi, questa la rivoluzione.

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