Stavo facendo pulizia nella mia posta elettronica e mi sono imbattuta in uno scambio di mail di un paio d’anni fa avuto con Dacia Maraini. Sì, Dacia Maraini. Ricordo benissimo com’è andata. Ho cercato il suo indirizzo in rete e poi con molta semplicità le ho scritto, senza intermediazioni. E lei ha risposto subito. Che bella la vita senza filtri. E di lì a un paio di mesi la sono andata a trovare a Roma per un’intervista sul Giappone.
“Caro Giappone, con i tuoi odori di peschi in fiore, di dolci di soia, di pesce fritto e di sakè caldo che mi si sono stampati nella memoria olfattiva. Mi sei stato madre e padre e hai lasciato
tracce incancellabili sul mio destino.” Sono le parole con le quali lei comincia uno dei capitoli del suo libro “La seduzione dell’altrove” intitolato proprio “caro Giappone”.
Sono seduta di fronte a lei nella sua bellissima casa, il suo cane è ai suoi piedi e alle sue spalle c’è una parete zeppa di libri. La sua bellezza di persona è ancora più incredibile. Ho certamente un po’ di reverenza nei suoi confronti, lei la grande scrittrice che ha deciso di preparare metaforicamente con me i bagagli, ma i suoi occhi blu, incorniciati dall’immancabile matita azzurra, mi tranquillizzano subito. Sono accoglienti. La sua voce mi fa strada attraverso un Giappone che è molto cambiato, ma che è anche attaccato morbosamente alle sue tradizioni, come il teatro di Noh, un teatro che dal ‘600 si ripete uguale a se stesso, con le stesse famiglie che si tramandano di padre in figlio questa famosa maschera di legno. Sembra tutto così lontano ed esotico.
Mi viene in mente la descrizione che lei fa dell’esotismo nel libro. L’esotismo è un punto
di vista sull’altrove, una prospettiva che implica la lontananza e implica uno sguardo carezzevole e desiderante su ciò che è lontano. Siamo sedotti dalla lontananza e dai sogni che costruiamo intorno a questa lontananza. Forse è per questo che vorrei sempre essere altrove, ovunque, purché altrove.
I giapponesi poi, prosegue la mia compagna di viaggio, hanno uno spirito di solidarietà fuori dal comune, usano i colori come linguaggio, sono sempre a metà fra la modernità e la tradizione e hanno un rapporto col lavoro alquanto controverso. Con la sua pacatezza mi spiega che è una specie di religione laica e tirannica per i giapponesi. Qui si lavora tanto, forse troppo, ed è un aspetto contraddittorio di questa terra. “Tu sei tragico nell’impegno che metti a essere virtuoso”. Questa è la sintesi scritta nel suo libro.
Ci sono in particolare due città che mi vuole consigliare di vedere e io non manco di seguirla. Kyoto che corrisponde alla nostra Firenze, è la città dell’arte, dei grandi templi, è
la città dei musei, delle cose più belle che ci sono, dei giardini spettacolari. E Sapporo, che di solito non consigliano ai turisti, che è l’estremo nord del Giappone. Una zona molto fredda, nevosa, dove si possono vedere gli orsi.
E in quanto a souvenir? Certamente il Kimono. Che bello deve essere un kimono. Tutto poi sta nel saperlo indossare, come facevano le Gheishe, stretto da un uomo, perchè solo un uomo può farlo, con un grande fiocco. Anche se possono sembrare meno impegnative delle ceramiche, io opto per il kimono. Anche solo per il fatto che occupa meno spazio in valigia.
Ora siamo pronte per salutarci. Prima però un’ultima cosa. Sono sempre stata molto incuriosita dalla lingua giapponese e così le chiedo se l’ha mai sorpresa qualche ideogramma. E con la
naturalezza che ha tenuto per tutta la nostra chiacchierata, si congeda regalandomi un’immagine bellissima di lei e del suo amato Giappone.
“Il mio nome Maraini che vuol dire cavallo. Mi piace molto l’idea che nel mio nome ci sia il cavallo.”