Leggere. Imperativo femminile.

Battersi sul petto non era servito a nulla. Aveva dato anche qualche colpetto all’altezza delle meningi, ma niente da fare. Se non riparte il cuore, che almeno il cervello lo faccia, aveva pensato Bibi. Silenzio. Aveva persino mangiato una delle pellicine vicino all’unghia del medio destro, quello dove una volta, prima delle tastiere, era visibile un callo di cui andava così fiera. Una deformazione dell’arto che la faceva sentire adatta al suo destino. Scrivere. Ma anche in quel caso non era riuscita a scartarsi, si era procurata solo una fastidiosa ferita dalla quale non usciva granché, a parte un po’ di sangue. Eppure una volta aveva sentito spirare dell’aria da dentro la sua mano.

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Si era tagliata con il bordo della pagina di un libro. Un’incisione precisa che aveva allungato dal palmo verso il dorso la linea della vita. E mentre se la stava portando verso la bocca per addolcire con della saliva quel bruciore, le labbra le si erano seccate con un vento caldo che, non c’erano dubbi, arrivava proprio da quella fessura nella carne. In quell’occasione aveva tentato di guardarci dentro, di tenerla aperta il più possibile per capire da dove arrivasse quella corrente. Non che avesse trovato delle risposte, piuttosto si erano infittite le domande. Se l’era anche portata all’orecchio, si sa mai che ci sia qualcosa da capire, ma nell’aria che usciva da dentro di lei non c’erano parole. Lo spiffero le era rimasto aperto nei giorni successivi. Se metteva la mano di taglio vicino alla fiamma di una candela la spegneva. Se ci metteva sopra il dito per tapparlo, si sentiva mancare il fiato. Le era capitato di dover stringere delle mani, esperienza alquanto imbarazzante con uno sfiato aperto ventiquattrore su ventiquattro proprio dove l’altro preme con le dita. Eppure con l’andare del tempo si era abituata a respirare, o meglio, a soffiare dalla mano. Si era tenuta quella finestrella aperta per settimane, finché non si era richiusa da sola. E si era richiusa una mattina davanti a una tazza di tè, senza lasciare traccia sulla pelle. Com’era venuta se n’era andata. Bibi se n’era accorta perché aveva sentito quello stesso bruciore proprio lì, un lieve dolore seguito da un’irrefrenabile voglia di stringere i pugni. E poi la solitudine.

Da quel giorno non faceva che sentirsi appesantita dalla vita, tutto era terribilmente reale e concreto, per lei che di concreto in quarant’anni c’era stato solo il ciclo, richiamo puntuale alla sua appartenenza alla carne. Il resto era sempre stato leggerezza. Leggerezza negli abiti, nei capelli, nelle parole, nei comportamenti, nel pensiero. Mentre il suo divano di pelle rossa le accarezzava i lombi e la malinconia, e fuori pioveva, aveva cercato il modo di far tornare tutto come prima, di riaccendere la macchina del vento che la teneva in moto. La realtà senza un’iniezione d’aria era un peso che non poteva sopportare, era zavorra per la sua immaginazione e addirittura per la sua femminilità. Lei voleva tornare ad avere un’anima di chiffon o non di panno. Quando improvvisamente un dolore al basso ventre le ricordò che era giorno di mestruo. Maledizione, eccolo il corpo che le ricorda di essere fatta di non solo spirito. Andò in bagno per mettersi un assorbente senza smettere di pensare alla sua situazione di stallo. E per la prima volta, nell’intento di far aderire l’adesivo allo slip, pensò alla rivoluzione delle ali. Le ali che in quei pochi centimetri di ovatta si aggrappavano alla biancheria rinunciando alla loro natura. Ali che ancoravano, un ossimoro che sbloccò l’ingranaggio e diede vita alla soluzione.

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Bibi ora sapeva cosa fare. Uscì emozionata sul terrazzo di casa noncurante della pioggia, aprì le braccia e cominciò a muoverle, come nell’intento di spiccare il volo. Sempre più forte, finchè la sua mano destra non cominciò a farle male all’altezza della linea della vita, dove si era ferita con la pagina del libro. E più le faceva male, più sbatteva le braccia. Di più, di più. Gli occhi chiusi, il viso rivolto al cielo, le gocce di pioggia si mescolavano alle sue lacrime, un colpo di vento le trasformò i pantaloni in una gonna, i capelli cominciarono a crescerle lunghi, mentre le braccia andavano su e giù con più forza. Di più, di più. L’ipotenusa del suo naso ora sembrava più che mai un becco e respirava leggerezza e vita. Un grido uscì da ogni poro della sua pelle, in coro “Aria, sono di nuovo tua.”

A rito finito Bibi si sentì quella di prima, con tutte le sue illusioni confortanti, solo con un leggero sapore di ferro in bocca. Andò allo specchio, la sua figura era più eterea che mai, i contorni del suo corpo si intravedevano a mala pena. Così si punse il dito con uno spillo, lo fece sanguinare e se lo passò sulle labbra, come un rossetto. Ogni volta che vedeva ricomparire prepotente la forza di gravità sulla sua materia, prendeva un libro e faceva scorrere le pagine veloci, facendosi aria al viso. Non c’era sempre bisogno di leggere parole, bastava anche solamente sentirle leggere. A volte è solo una questione di accenti.