I monologhi delle ascelle. Le ascelle e il sesso.

Non poteva mancare un monologo dedicato al sesso. Eccolo per intero, anche se interpretato da Enrica Tesio dal vivo è stato sicuramente molto più divertente. Ve lo potete rivedere in prima serata su la7d mercoledì 1° luglio.

Disegni di Ilaria Urbinati

Disegni di Ilaria Urbinati

Troppo facile cominciare con l’assunto capitolino “l’omo pe’ esse omo ha da puzzà!”, per quanto si possa essere d’accordo o no. Ma visto che persino la scienza sembra dargli ragione, forse vale la pena uscire dall’irretimento della rima “odore amore” e soffermarsi per un attimo sull’essenza del maschio alfa al quale ambiamo tutte, ma proprio tutte, anche se spesso ce lo nascondiamo.

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Siate meno zelanti in viaggio.

In un post di qualche giorno fa su bigodino.it parlavo dell’amara scoperta di me bambina dell’assenza di bidet in alcune grandi città del nord Europa, tra queste Londra. Viaggio che ancora ricordo quello nella capitale inglese, al di là della difficoltà di avere un’igiene intima adeguata, perchè quella era la prima volta che prendevo un aereo.

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All’andata ero accompagnata da mia sorella, al ritorno, ahimè, lei si sarebbe fermata per studio e io mi sarei dovuta imbarcare da sola. Sì, da sola. A pensarci ora mi vengono i brividi, ma in fondo le indicazioni erano state chiare una volta accompagnata all’imbarco: individua degli italiani che capisci prenderanno il tuo stesso volo e seguili. Volavo su Milano, o almeno così era scritto sul biglietto. Peccato che per nebbia poi ci abbiano fatto atterrare in un altro aeroporto del nord, mi pare fosse Genova. Beh, è stato solo l’inizio di una serie di assurdità che mi sono capitate in viaggio per e da Londra. Una volta è stato l’anno della perdita del bagaglio. Avevo 15 anni e tutti i vestiti più cari erano in quella valigia. Una tragedia. Poi l’anno del volo con scalo, perchè era il più economico, solo che per arrivare a Milano mi facevano fare prima una puntatina a Pisa. Quella compagnia aerea dopo qualche anno ha chiuso. Ma dai? Poi un anno ho deciso di arrivare a Venezia perchè un mio fidanzato mi sarebbe venuto a prendere là. L’emozione di vedere l’acqua che si avvicina al carello che è già sceso e che poi improvvisamente trova terra, beh, indescrivibile. E quando mi hanno fatto pagare un extra per il bagaglio, che era grosso lo ammetto, ma che era pari al costo del mio biglietto? Tanto valeva portarmi qualcuno a casa insieme alla valigia.

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Ma la cosa più divertente è stata quando ho cercato di seminare una chiave. Lì è cosa più recente ed era un volo per Londra che partiva da Roma, tanto per mescolare un po’ di più le carte. Sì, dovevo seminare una chiave. Era la chiave di casa di un grande amore ormai finito. Avevo pensato che lasciarla in arie internazionali sarebbe stata la giusta fine. Così, appena decollati, la faccio scivolare nel sedile, sotto al mio culo. Atterrati a Heathrow sento un signore che mi chiama “signorina, credo abbia perso questa” e mi porge la chiave. Maledizione. Me la sono tenuta in tasca per tutto il soggiorno londinese cercando di escogitare un altro rito catartico. E davanti a un tè e a una fetta di torta alla carota da Pret a Manger ecco la soluzione: l’avrei spedita in una busta senza mittente alla capitaneria di porto di Sanremo, dove io e il mio ormai ex ci eravamo incontrati la prima volta. Diabolico. E così ho fatto. Chissà cosa avranno pensato quelli che l’hanno aperta quella busta. Qualcuno forse non c’avrà dormito la notte. La colpa comunque è dell’eccesso di zelo di certi passeggeri.

Così bastò la siepe a Leopardi.

Non c’è come scorgere un impedimento alla linearità del pensiero, un limite alle mire espansionistiche dell’immaginazione che la brama dell’oltre, dell’altrove, del celato si impadronisce delle nostre viscere. E improvvisamente quell’ostacolo diventa la finestra su un nuovo mondo. La nebbia si dirada e compare abbagliante la nuova verità.

In occasione di una delle fiere più grosse ed improbabili che si tengono a Milano in prossimità delle feste natalizie, “L’artigiano in fiera”, mi è capitato di dare una mano ad un’amica che ha una cioccolateria. Solo dopo alcuni giorni ho capito che non si trattava di vendere percentuali più o meno grandi di cacao trasformate in praline o tavolette, ma attraverso esse come tante messaline offrivamo tutte, dico tutte perché eravamo solo donne al di qua del bachetto, il nostro corpo. La situazione mi è apparsa chiara quando una delle clienti ha scoperto le proprie carte, mostrando la propria ira come da cagnetta cui è stato sottratto l’osso.

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Banchetto ambitissimo da gente di ogni età, cultura, religione ed estrazione sociale eravamo prese d’assalto da orde di papille gustative pronte ad essere titillate. Difficile stabilire delle precedenze tra di loro, si cercava di dare ascolto un po’ a tutte. C’era chi con lo sguardo del “tocca a me” attirava l’attenzione anche se era l’utlimo arrivato, oppure delle cortesi domande del tipo “l’hanno già servita?” erano la nostra soluzione all’anarchia dovuta all’inebriante promessa di felicità che si respirava nei pressi dello stand. Ma ecco che incrocio lo sguardo smarrito, e solo più tardi scoprirò essere stato invece sospettoso, di una donna schiacciata dalla folla tra la vetrina e un uomo dalle idee molto chiare sui cioccolatini che avrebbe voluto possedere – è il caso di dirlo – la cui bramosia una mia collega stava già assecondando.

Ho avuto l’ardire di rivolgere una domanda tendenziosa alla presunta cliente non tenendo conto del registro nel quale il cioccolato ci aveva trasferite. Si sa, a seconda della situazione e degli interlocutori certe frasi possono avere molteplici significati. Non era un rapporto commerciale quello instaurato tra noi che vendevamo cioccolato e loro che lo acquistavano, ma una sfida dove il possesso, anche se non reale, dell’altrui corpo era la posta in gioco. Così ho chiesto ingenuamente “siete insieme?”, un modo per fare ordine nella mia gerarchia di persone ancora da servire. Sconcertante quando lei mi ha liquidata, per di più visibilmente infastidita, con un “veramente siamo sposati”. Ebbene sì, ero una rivale da rimettere al proprio posto, “siete insieme?” può voler dire troppe cose. Stavo insidiando il suo territorio. Ero una sorta di sirena che cercava di irretire il viaggiatore. Il suo viaggiatore. Quale fortuna quella dichiarazione pubblica dell’esistenza persino di un contratto, il matrimonio. È stata la corda che ha tenuto quell’Ulisse ben saldo all’albero della barca. E così il viaggio è potuto continuare.

La valigia di Sveva Casati Modignani.

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Per le strade di Milano io ho l’impressione di essere nei corridoi di un palazzo mio che mi appartiene da sempre. Non sono fuori, sono dentro.
Sveva Casati Modignani mi conduce alla scoperta di casa sua, una Milano inedita che si mostra solo a chi la sappia veramente scovare, con una grazia e una pacatezza senza eguali. La milanesità è poi il fil rouge sul quale imbastisce scenari di ieri e di oggi. Il cibo, protagonista del suo ultimo libro, è anche qui un tema ricorrente. Un modo per parlare del cuore passando per la pancia.